ULTIMA NOTTE

 

Ero partito tardi il mattino avanti, pioveva giù al piano, di quella pioggia monotona e sottile che  preludia i giorni dei morti. Volevo salire per l’ultima volta al Campo con la scusa di riportare a valle il sacco a pelo ed altre cose vi avevo lasciato, utili  a render  meno dure le notti di bivacco, ma l’idea di scarpinare sù per il sentiero  per qualche ora sotto la pioggia smorzava ogni slancio. Invece all’imbocco della valle, dagli sprazzi di cielo azzurrino, un bel sole ravvivava i fianchi dei monti  incendiandoli con gialle fiammate d’oro antico e vampe rosso ramate. Le nebbie  compatte e viscide nascondevano le cime, vapori ovattati si sfilacciavano sui fianchi come impigliati tra i rami e da questi trattenute nel loro incedere fluttuante verso i crinali, e così i miei pensieri  lungamente indugianti tra le vallette ombrose rigate da rivoli sommessi, dove  le foglie deposte fan più  in fretta a marcire ed  il richiamo malioso è nell’aria, quasi palpabile, a cercare con mille lusinghe di  farmi scordare  gli alti pascoli, le creste affilate, i silenzi infiniti, le sbornie di spazi.

Perché alle volte t’assale e si acquartiera nel cuore una gran tristezza fonda che non ha, apparente, ragione alcuna e apparecchia l’animo ad una grande mestizia?  Compagna discreta, passo dietro passo, sui sassi viscidi del sentiero che si prepara al gelo rimboccandosi la coperta di foglie, sui muschi soffici e gli aghi silenti di abete, lungo le sponde del torrente che pare avere gran furia di scendere a valle. Sui fili d’erba, sugli steli dei  fiori ormai spogli, sui cespugli rabbrividiscono brillanti  infinite minutissime lacrime, ogni foglia caduta raccoglie frammenti di cielo.

C’è nell’aria nel tripudio di colori un gran sentore di cose che cambiano, una pacata voglia di tenerezze che preludia il timore di una sofferenza cruda che il tempo lentamente matura.
Quanto vere,  sentite e sincere son  le preghiere  quassù. Ti nascono dal fondo dell’anima e gorgogliando piano salgono in gola per essere quietamente  recitate, anche  solo pensate. Vorresti averne una per tutti e quasi ti senti di aver fatto un torto a quelli che ne son rimasti esclusi.

Ho ritrovato ogni cosa come l’avevo lasciata sette giorni prima, tutto nello stesso posto, immutato come i gesti semplici di una vita essenziale, preparare la legna per un timido fuoco di bivacco, fare  provvista d’acqua giù al torrente dove una vena sgorga dall’argine, le candele sulla tavola, l’intimo contatto finalmente rinnovato coi cani. Quietamente seduto sulla panca di pietra appoggiata all’ingresso della baita accanto, ho lasciato l’anima fondersi con la struggente infinita mestizia dell’alta sera alpina, sperando che alla  mia preghiera s’unissero in coro, sgranando il loro rosario dalle vertiginose dimore rocciose, le coturnici.
Poi la notte è dilagata silente racchiudendo sotto le piode sconnesse un  trepido mondo di sogno.

Il cielo terso  tempestato di tremule stelle  pareva appena sospeso sopra le alte cime, ho  aspettato che schiarisse seduto sul sentiero quasi alla sommità dell’erta, poco sotto i paglioni, non volevo disturbare il salmo mattutino. Il cuore peso di un triste presagio, l’ultima volta della stagione, forse  di sempre, in  quella valle. Verso est schiariva, le cime attizzate dai primi raggi del sole rimandavano chiarità di  colori intensi, trasparenze  cristalline, candori di nevi recenti ed ancora immacolate. Giù in basso, lontano, il piano; un indistinto acquitrino di nebbie confuse in cui l’animo umano s’impaluda oppresso dalla necessità del superfluo, si dibatte ed annaspa boccheggiante per il forzato viver coatto. Quassù i pensieri son tanto diversi.

Lo sfogo del galoppo sfrenato, l’ardente desiderio di un incontro agognato, son già lontani i cani, sulla sommità dei paglioni., le incrociano sulla prima pastura ai piedi dei paretoni e l’incontro subito sfuma. Oggi  non si riesce a gestirli, anche il vecchio  sembra dimentico di tutti gli acciacchi, mi irrita questo loro lasciarmi in disparte, comprimario, quasi comparsa. Ecco, Artù, il padre, è nuovamente sparito. Lo attendo a lungo inutilmente. Guadagno la sommità di un promontorio per poter spaziare con lo sguardo lontano. Nulla. L’immobilità di solitudini vaste, immutabili.

Forse laggiù, un masso pare animarsi, è lui. Si muove  cauto di traverso al  pendio su un percorso solo a lui noto, piega verso l’alto per pochi passi ancora, fermo! Deciso, concentrato, rapito. Le ha nel naso, le avevo lasciate indietro. Ed è subito tumulto di cuore, corsa affannosa sulle rocce che il fiato della notte gelando ha reso di vetro, cercando l’equilibrio, evitando rumori, minuti che scorrono, imprecazioni,  invocazioni, un momento, un  momento ancora, aspettate. Il giovane ha  scoperto il padre e si è  fermato  qualche metro più in basso, ora ci sono anch’io, è l’altissimo attimo in cui non vi sono pensieri, ne  rumori o colori, null’altro all’infuori di  un pugno di trepidi cuori pulsanti allo spasimo di opposte tensioni.   Qualcuno dovrà rompere l’incanto.  E’ il giovane Fast e subitamente esplode nel volo scrosciante la brigata di coturne, come fuoco d’artificio color delle rocce, d’azzurro del cielo, striate di terra. Ne scelgo una....la più sfortunata.

Non è lo zaino pur greve sulle spalle che mi opprime, ma il peso dell’abbandono  che porto nel cuore, mi giro  a salutare le baite dell’alpe e con lo sguardo abbraccio la vasta conca che l’accoglie, scenderò piano indugiando sopra il sentiero, di traverso ai magri pascoli alpini.

I cani mi precedono distanti sullo stesso mio percorso contrariandomi un poco. Nella piccola conca che si stringe in alto sfociando in una modesta  giavina l’incontro non è inatteso, ne son  presagio sicuro fatte fresche sparse tra le erbe durante la pastura. I cani le hanno avvertite e risalgono con ampi fendenti e rinnovata energia il fianco della montagna, superandosi spariscono oltre una  gobba. Così finiranno per forzarle, devo scegliere un buon punto ed aspettare. Passa poco e due sassi sibilano in picchiata sulla destra al limite della portata, cerco inutilmente fortuna di seconda canna, ne arrivano altre, la ritardataria è la più vicina, fatalmente vicina.

Le nubi han preso possesso delle creste e si accingono a scendere al fondo, le superstiti, sbrancate, si richiamano nella nebbia, sarebbe facile gioco averne ragione, ma ho già avuto più di quanto avessi sperato, che sia tregua, un arrivederci, forse un addio.

C’è ancora tempo per  inseguire un sogno, laggiù nel bosco, al bordo dei prati, il fascino malioso di due umidi occhi neri, lungo il sentiero che riporta al piano.

 

 


Lirurus Tetrix

 

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